giovedì 28 aprile 2016

La Cosa della Palude

Questo breve scritto avrebbe dovuto comparire nel "volumone" celebrativo dedicato alla storia della Dc Comics a cura di Alessio Danesi. Per problemi di spazio non è stato possibile inserirlo tra le pagine del libro. Mi spiaceva, però, lasciarlo nel cassetto, così ho deciso di pubblicarlo ugualmente (con un piccolo omaggio a compendio). Annoiatevene.




Weird Things
di
Michele Benevento


Io e la Cosa della Palude abbiamo incrociato le nostre strade un paio di volte nel corso degli anni.
Il primo rendez-vous avvenne a Firenze, nell’ edicola sotto casa durante gli anni della formazione universitaria, quando, onnivoro, fagocitavo tutto ciò che mi passava sotto il naso: che fosse buono o meno buono poco importava. “ Swamp Thing “, nell’edizione in bianco e nero spillata della Magic Press, mi parve immediatamente un piatto prelibato. Confesso che le imbeccate arrivavano dai docenti della scuola di Fumetto che allora frequentavo e dai “compagni grandi” che già avevano letto Watchmen e V for Vendetta… Io di Alan Moore sapevo poco e niente, se non che veniva considerato un  genio assoluto e il grande demiurgo dell’alta narrativa per immagini, l’innovatore del fumetto supereroistico e non. Quando scorsi il suo nome su quelle copertine, gioco forza mi ritrovai in casa i volumetti, uguali per forma e dimensioni eppure evidentemente così diversi da quelli dei supereroi classici di casa DC. Non il“solito” personaggio in calzamaglia, ma un tizio qualunque, Alex Holland ,ex scienziato morto tra le fiamme e ridestatosi nella forma corporea vegetale del mostro verde chiamato Swamp Thing. Che non fosse come Superman o Batman nell’aspetto fisico era evidente, ma quello che mi arrivò dritto allo stomaco era la prosa,  il linguaggio, le immagini “comiche e orrorifiche” nel  modo in cui le vicende venivano orchestrate/narrate da questo Carneade chiamato Alan Moore.  
Ammetto che il disegno dei due assistenti di Wrightson – cocreatore del personaggio insieme a Len Wein – Totleben e Bissette (a lui succeduti dopo l’abbandono del team creativo originale) aiutati da Rick Veitch, non mi faceva impazzire, pur nella versione B&W: trovavo il loro tratto impreciso, anatomicamente non sempre “giusto” mentre lo storytelling (farina del sacco di Moore) e la particolare costruzione delle tavole erano qualcosa che ancora non avevo mai visto. Lo so, ero giovane, bastava poco direte voi. Vero.

Io e la Cosa della Palude ci siamo incontrati ancora anni dopo e in circostanze bizzarre, quantomeno curiose per tutta una serie di significati e coincidenze.
Al momento di disegnare l’ultima storia di Lukas mi fu espressamente chiesto da Medda di scovare l’Annual n. 2 di Swamp Thing. La sequenza finale in cui Lukas combatte contro il cattivo doveva infatti svolgersi  in una palude e, secondo il mio sceneggiatore, quelle tavole avrebbero potuto aiutarmi nella realizzazione delle mie.
Entrato fortuitamente in possesso del Vol. 1 edito da Planeta DeAgostini, ho potuto rileggere le storie di Moore.  E rivalutare il lavoro di Bissette e Totleben (continuo a preferire Wrightson,  mi perdonino) in cui ora intravedevo echi del lavoro di Reed Crandall o di Graham Ingels (validissimi disegnatori  di storie horror per la EC) .  Avevo cominciato a pensare a come disegnare la palude e il punto di partenza come sempre nel mio lavoro è stata la documentazione fotografica. Ho raccolto quanto più materiale possibile, ma sfogliando  le pagine di “Questioni in sospeso” e  de “La sepoltura” – per citarne un paio - mi sono accorto che i due artisti americani  avevano operato uno scarto, avevano deviato dalla rappresentazione realistica della palude. Grazie a uno stile grottesco, certo figlio di quello del loro maestro, e, nella sua imprecisione, disturbante e angoscioso, avevano potuto trasferire l’ambiente su un piano non  più fisico, un paesaggio mentale,  un luogo inesistente e fumettistico, popolato da creature strane (W-E-I-R- D, avrebbe computato Paul, il ragazzo vittima del Re Scimmia) , da piante, lucertole varie e muschi mostruosi che si annodano e intrecciano fino ad arrampicarsi e fondersi nella creatura un tempo chiamata Alex Holland.

O Alex Olsen, se vogliamo chiamarlo con il nome della sua prima incarnazione, apparsa sulle pagine di House of Secrets n. 92, dove Wein e Wrightson testano il personaggio che, visto il successo di pubblico e critica, avrà sua una serie regolare in cui i due autori avrebbero raccontato ex novo le origini del personaggio cambiandogli nome. Una piccola curiosità: il volto della donna che compare sulla copertina di HoS, la fidanzata cioè del protagonista, ha le sembianze di Louise Simonson – moglie del famoso Walt - che posò come modella.

Insomma, rileggendo la saga, è stato strano (W- E-I-R-D)  ritrovare tematiche e atmosfere simili a quelle che stavamo esplorando con Lukas: la rinascita, la memoria di una vita passata, il ribaltamento del concetto di mostro – già nella prima incarnazione Wein pose l’accento sul  fatto che il vero mostro non è certo la creatura orripilante che si para davanti agli occhi  della giovane e bella Linda e che  elimina il malvagio Damian responsabile della morte del suo alter ego umano – il mostro che desidera conservare la sua umanità o che in qualche modo vi cerca rifugio e nascondiglio.  Ritrovarsi in quella palude per disegnarne un’altra e scoprire che in realtà  si trattava della stessa scenografia , dello stesso palcoscenico, dove mettere in scena lo stesso dramma è stato elettrizzante. Ho buttato (no, non è vero) le centinaia di foto sulle paludi e mi sono lasciato guidare da quelle vignette, ho cercato di capire il perché di certe quinte,  di comprendere la struttura del tratteggio, la forma delle pennellate che descrivevano quegli intrecci, quelle ramificazioni, e che suggerivano perfettamente l’atmosfera lugubre e decadente, umida e soffocante di una palude abitata da creature mostruose e dolenti.
C’è una storia in particolare che ho sentito affine, per l’approccio al tema dell’essere mostro, inteso come entità, come organismo vivente, a tutti gli effetti, pur nella sua aberrazione. In “Lezione di Anatomia” Moore destruttura il concept di Wein: non è l’uomo che si fa pianta ma, al contrario, è il vegetale a impossessarsi della memoria dell’uomo e a credersi una sua incarnazione. Per spiegarcelo Moore disseziona il cadavere del vecchio Swamp Thing, lo eviscera , lo smembra per farlo rinascere con un approccio freddo e scientifico, oserei dire verosimile anziché realistico. Dalla verosimiglianza il mostro rinasce, pronto per poter essere  fruito e accettato dai lettori del decennio successivo (Swamp Thing nasce negli anni ’70 mentre Moore lo scriverà a metà degli anni 80). Dalle stesse premesse (l’approccio pseudoscientifico, la verosimiglianza) mi son mosso per “costruire” l’universo mostruoso di Lukas, e chissà che non sia perché qualcosa di queste letture non mi sia rimasto impigliato nell’ippocampo durante i miei  anni ingenui. 
Swamp Thing è una storia dell’orrore, genuino, ancestrale, primigenio, che ha a che fare con la morte o con l’Inferno. Moore, ma io dico anche Len Wein nella prima storia,  raccontano di un Prometeo moderno, di un Frankestein dei giorni nostri (e che strano che Wrightson proprio al mostro della Shelley  sia approdato, per il suo capolavoro) scavano, rimestano nei meandri oscuri e umidicci dell’esistenza.  “Di notte, puoi quasi immaginare come sarebbe se la palude fosse ridotta alla sua essenza […] se tutto il fango, tutte le ossa di roditore e tutta la decomposizione si alzasse su due gambe attraverso i bassifondi; se la Palude avesse uno spirito e quello spirito camminasse come un uomo”. [da “Swamp Thing” Vol. 1, Planeta DeAgostini].






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