Questo breve scritto avrebbe dovuto comparire nel "volumone" celebrativo dedicato alla storia della Dc Comics a cura di Alessio Danesi. Per problemi di spazio non è stato possibile inserirlo tra le pagine del libro. Mi spiaceva, però, lasciarlo nel cassetto, così ho deciso di pubblicarlo ugualmente (con un piccolo omaggio a compendio). Annoiatevene.
Weird Things
di
Michele Benevento
Io e la Cosa della Palude abbiamo incrociato le nostre
strade un paio di volte nel corso degli anni.
Il primo rendez-vous avvenne a Firenze, nell’ edicola sotto
casa durante gli anni della formazione universitaria, quando, onnivoro, fagocitavo
tutto ciò che mi passava sotto il naso: che fosse buono o meno buono poco
importava. “ Swamp Thing “, nell’edizione in bianco e nero spillata della Magic
Press, mi parve immediatamente un piatto prelibato. Confesso che le imbeccate
arrivavano dai docenti della scuola di Fumetto che allora frequentavo e dai
“compagni grandi” che già avevano letto Watchmen e V for Vendetta… Io di Alan
Moore sapevo poco e niente, se non che veniva considerato un genio assoluto e il grande demiurgo dell’alta
narrativa per immagini, l’innovatore del fumetto supereroistico e non. Quando
scorsi il suo nome su quelle copertine, gioco forza mi ritrovai in casa i volumetti,
uguali per forma e dimensioni eppure evidentemente così diversi da quelli dei
supereroi classici di casa DC. Non il“solito” personaggio in calzamaglia, ma un
tizio qualunque, Alex Holland ,ex scienziato morto tra le fiamme e ridestatosi nella
forma corporea vegetale del mostro verde chiamato Swamp Thing. Che non fosse
come Superman o Batman nell’aspetto fisico era evidente, ma quello che mi
arrivò dritto allo stomaco era la prosa, il linguaggio, le immagini “comiche e
orrorifiche” nel modo in cui le vicende
venivano orchestrate/narrate da questo Carneade chiamato Alan Moore.
Ammetto che il disegno dei due assistenti di Wrightson –
cocreatore del personaggio insieme a Len Wein – Totleben e Bissette (a lui
succeduti dopo l’abbandono del team creativo originale) aiutati da Rick Veitch,
non mi faceva impazzire, pur nella versione B&W: trovavo il loro tratto
impreciso, anatomicamente non sempre “giusto” mentre lo storytelling (farina
del sacco di Moore) e la particolare costruzione delle tavole erano qualcosa
che ancora non avevo mai visto. Lo so, ero giovane, bastava poco direte voi. Vero.
Io e la Cosa della Palude ci siamo incontrati ancora anni
dopo e in circostanze bizzarre, quantomeno curiose per tutta una serie di
significati e coincidenze.
Al momento di disegnare l’ultima storia di Lukas mi fu
espressamente chiesto da Medda di scovare l’Annual n. 2 di Swamp Thing. La
sequenza finale in cui Lukas combatte contro il cattivo doveva infatti
svolgersi in una palude e, secondo il
mio sceneggiatore, quelle tavole avrebbero potuto aiutarmi nella realizzazione
delle mie.
Entrato fortuitamente in possesso del Vol. 1 edito da
Planeta DeAgostini, ho potuto rileggere le storie di Moore. E rivalutare il lavoro di Bissette e Totleben
(continuo a preferire Wrightson, mi perdonino)
in cui ora intravedevo echi del lavoro di Reed Crandall o di Graham Ingels
(validissimi disegnatori di storie
horror per la EC) . Avevo cominciato a
pensare a come disegnare la palude e il punto di partenza come sempre nel mio
lavoro è stata la documentazione fotografica. Ho raccolto quanto più materiale
possibile, ma sfogliando le pagine di
“Questioni in sospeso” e de “La
sepoltura” – per citarne un paio - mi sono accorto che i due artisti
americani avevano operato uno scarto,
avevano deviato dalla rappresentazione realistica della palude. Grazie a uno
stile grottesco, certo figlio di quello del loro maestro, e, nella sua
imprecisione, disturbante e angoscioso, avevano potuto trasferire l’ambiente su
un piano non più fisico, un paesaggio
mentale, un luogo inesistente e
fumettistico, popolato da creature strane (W-E-I-R- D, avrebbe computato Paul,
il ragazzo vittima del Re Scimmia) , da piante, lucertole varie e muschi mostruosi
che si annodano e intrecciano fino ad arrampicarsi e fondersi nella creatura un
tempo chiamata Alex Holland.
O Alex Olsen, se vogliamo chiamarlo con il nome della sua
prima incarnazione, apparsa sulle pagine di House of Secrets n. 92, dove Wein e
Wrightson testano il personaggio che, visto il successo di pubblico e critica,
avrà sua una serie regolare in cui i due autori avrebbero raccontato ex novo le
origini del personaggio cambiandogli nome. Una piccola curiosità: il volto
della donna che compare sulla copertina di HoS, la fidanzata cioè del
protagonista, ha le sembianze di Louise Simonson – moglie del famoso Walt - che
posò come modella.
Insomma, rileggendo la saga, è stato strano (W-
E-I-R-D) ritrovare tematiche e atmosfere
simili a quelle che stavamo esplorando con Lukas: la rinascita, la memoria di
una vita passata, il ribaltamento del concetto di mostro – già nella prima incarnazione
Wein pose l’accento sul fatto che il
vero mostro non è certo la creatura orripilante che si para davanti agli
occhi della giovane e bella Linda e
che elimina il malvagio Damian
responsabile della morte del suo alter ego umano – il mostro che desidera
conservare la sua umanità o che in qualche modo vi cerca rifugio e
nascondiglio. Ritrovarsi in quella
palude per disegnarne un’altra e scoprire che in realtà si trattava della stessa scenografia , dello
stesso palcoscenico, dove mettere in scena lo stesso dramma è stato
elettrizzante. Ho buttato (no, non è vero) le centinaia di foto sulle paludi e
mi sono lasciato guidare da quelle vignette, ho cercato di capire il perché di
certe quinte, di comprendere la
struttura del tratteggio, la forma delle pennellate che descrivevano quegli
intrecci, quelle ramificazioni, e che suggerivano perfettamente l’atmosfera
lugubre e decadente, umida e soffocante di una palude abitata da creature mostruose
e dolenti.
C’è una storia in particolare che ho sentito affine, per
l’approccio al tema dell’essere mostro, inteso come entità, come organismo
vivente, a tutti gli effetti, pur nella sua aberrazione. In “Lezione di
Anatomia” Moore destruttura il concept di Wein: non è l’uomo che si fa pianta
ma, al contrario, è il vegetale a impossessarsi della memoria dell’uomo e a
credersi una sua incarnazione. Per spiegarcelo Moore disseziona il cadavere del
vecchio Swamp Thing, lo eviscera , lo smembra per farlo rinascere con un
approccio freddo e scientifico, oserei dire verosimile anziché realistico.
Dalla verosimiglianza il mostro rinasce, pronto per poter essere fruito e accettato dai lettori del decennio
successivo (Swamp Thing nasce negli anni ’70 mentre Moore lo scriverà a metà
degli anni 80). Dalle stesse premesse (l’approccio pseudoscientifico, la
verosimiglianza) mi son mosso per “costruire” l’universo mostruoso di Lukas, e
chissà che non sia perché qualcosa di queste letture non mi sia rimasto
impigliato nell’ippocampo durante i miei
anni ingenui.
Swamp Thing è una storia dell’orrore, genuino, ancestrale,
primigenio, che ha a che fare con la morte o con l’Inferno. Moore, ma io dico
anche Len Wein nella prima storia, raccontano
di un Prometeo moderno, di un Frankestein dei giorni nostri (e che strano che
Wrightson proprio al mostro della Shelley sia approdato, per il suo capolavoro) scavano,
rimestano nei meandri oscuri e umidicci dell’esistenza. “Di notte, puoi quasi immaginare come sarebbe
se la palude fosse ridotta alla sua essenza […] se tutto il fango, tutte le
ossa di roditore e tutta la decomposizione si alzasse su due gambe attraverso i
bassifondi; se la Palude avesse uno spirito e quello spirito camminasse come un
uomo”. [da “Swamp Thing” Vol. 1, Planeta DeAgostini].